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Il profumo del caffè nero si mescolava a quello più pungente di polvere da sparo e di olio per armi, un’ode mattutina che solo chi aveva il sacro fuoco della caccia poteva apprezzare fino in fondo. Nella piccola stanza adiacente al capanno degli attrezzi, il nonno era già all’opera, curvo sul suo vecchio banco da ricarica. Le mani nodose, segnate dal tempo e dal lavoro, si muovevano con una precisione quasi chirurgica.

“Nonno, che fai di bello?” chiesi, affacciandomi con la curiosità di un ragazzino che aveva appena scoperto un tesoro nascosto.

Lui sollevò lo sguardo, un sorriso rugoso gli increspò il viso. “Ricarico, nipote. Vecchie cartucce in cartone, come quelle che usavamo una volta.”

Sul banco, allineate con una meticolosità quasi maniacale, c’erano bossoli di cartone dal colore vissuto, alcuni leggermente scrostati ma ancora integri. Accanto a essi, una serie di contenitori trasparenti rivelavano il loro prezioso contenuto: polveri antiche, alcune di un giallo ocra, altre di un grigio cenere, ciascuna con il suo nome inciso a mano su un’etichetta sbiadita: SIPE, SIDNA, Acapnia. E poi, i pallini: da una parte, quelli lucidi e pesanti di piombo, dall’altra, un mucchietto più piccolo di sfere color rame.

“Ma nonno,” obiettai, “oggi usiamo le cartucce moderne, quelle in plastica, con le polveri nuove. Perché tanta fatica con queste vecchie?”

Il nonno posò la mano sul mio braccio, e nel suo sguardo c’era un lampo di malinconia mista a saggezza. “Vedi, ragazzo, non è solo una questione di efficienza. È un rito. È un modo per mantenere vivo il ricordo di chi ci ha preceduto, di come si cacciava una volta. E poi, queste cartucce… hanno un’anima diversa. Un suono diverso, un rinculo che ti parla.”

Mi indicò una bilancina di precisione, di quelle a due piatti, con dei piccoli pesi in ottone. “Ogni dose di polvere è misurata al milligrammo. Troppa, e rovini la cartuccia. Troppo poca, e non avrai la potenza necessaria.” Prese un cucchiaino minuscolo e con gesti lenti e controllati, prelevò la polvere SIPE, depositandola sul piatto fino a che l’ago non si fermò esattamente sullo zero.

Poi, prese un bossolo di cartone e, con un imbutino di rame, versò la polvere all’interno. Seguirono la borra in feltro, pressata con un apposito calcatoio, e infine i pallini. “Per il colombaccio, useremo il piombo, più pesante, più potente,” spiegò, versando una dose generosa di sfere luccicanti. “Per la lepre, o la beccaccia, useremo il rame. Sono più leggeri, più veloci, e meno invasivi per la carne.”

Osservai affascinato il processo di orlatura, dove la parte superiore del bossolo veniva ripiegata su se stessa per sigillare il tutto, creando una cartuccia perfetta, quasi un’opera d’arte. Ogni movimento di Anselmo era calcolato, preciso, frutto di decenni di esperienza. Non un gesto sprecato, non un’incertezza.

“E queste polveri antiche, nonno? Sono ancora efficaci?” chiesi.

“Certo che lo sono! Hanno una combustione più lenta, più progressiva, che dà una spinta diversa ai pallini. Certo, devi conoscerle bene, sapere come si comportano in base all’umidità, alla temperatura. È un lavoro di fino, di pazienza. Non è come le polveri di oggi, tutte uguali, tutte standardizzate.”

Il giorno dopo, all’alba, eravamo nel bosco. L’aria frizzante del mattino ci accarezzava il viso. Anselmo imbracciava la sua vecchia doppietta, un’arma che sembrava un’estensione del suo braccio. Caricò le cartucce appena ricaricate, e il click metallico delle canne che si chiudevano risuonò nel silenzio.

Poco dopo, un frullo d’ali. Una beccaccia si alzò in volo, rapida come un’ombra. Anselmo non esitò. La doppietta salì alla spalla, e due colpi risuonarono, secchi, potenti, eppure con un timbro diverso, quasi più caldo, più profondo, rispetto ai colpi a cui ero abituato. La beccaccia cadde, senza un lamento.

Andammo a recuperarla. Anselmo la prese tra le mani, la accarezzò con rispetto. Poi si voltò verso di me, gli occhi che brillavano. “Vedi, nipote? Queste vecchie cartucce in cartone, con le loro polveri antiche e i pallini in piombo… non sono solo munizioni. Sono un legame con il passato, un inno alla pazienza, alla tradizione. E ogni volta che le uso, è come se un pezzo di storia tornasse a vivere tra le mie mani.”

E in quel momento, capii. Non era solo caccia, era una celebrazione. Una celebrazione di un tempo andato, di un sapere tramandato, e di quella passione che bruciava ancora, vivida, nel cuore di un vecchio cacciatore.


GATTINI MARCO - Migratoria.it


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