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Mi siedo qui, la tazza di caffè fumante tra le mani rugose, e guardo fuori dalla finestra. Il sole è quasi tramontato e l'aria si sta rinfrescando. Un tempo, a quest'ora, avrei avuto il fucile in spalla e il cuore che batteva forte, non per l'età, ma per l'eccitazione. Parlavo di decenni fa, s'intende, quando il rientro non era solo il crepuscolo, ma una sinfonia di ali e cinguettii.

Oggi i ragazzi guardano gli uccelli con binocoli e macchine fotografiche, e va bene così. Ma ai miei tempi, il richiamo del passero o del fringuello al rientro era diverso. Era un appuntamento con la tradizione, con la fame a volte, e sempre con l'arte sottile dell'attesa.

Ricordo le serate di settembre, quando l'aria cominciava ad avere quel sentore di mosto e foglie secche. Ci si appostava. Non servivano appostamenti da lusso, bastava una siepe, un piccolo casolare diroccato, o persino un cumulo di fascine. Il trucco era diventare parte del paesaggio, mimetizzarsi con l'ombra che si allungava.

Le prime avvisaglie erano il fruscio leggero tra le foglie, poi un cinguettio isolato, quasi timido. Erano gli esploratori, i primi coraggiosi a tornare dalle campagne. E poi, all'improvviso, il cielo si animava. Centinaia, a volte migliaia di passeri, che tornavano ai loro dormitori, alle vecchie cascine, ai tetti delle chiese. Era uno spettacolo incredibile, una nuvola scura e vibrante che si muoveva all'unisono.

E i fringuelli, ah, i fringuelli! Più schivi, più eleganti nel volo. Arrivavano spesso in gruppi più piccoli, con quel loro richiamo acuto e inconfondibile. Erano più difficili da prendere, più furbi. Bisognava essere rapidi, precisi. Non c'era spazio per l'errore.

Il colpo. Un singolo, secco rumore che rompeva il silenzio. E poi la ricompensa. Non era solo la preda, era la soddisfazione di un'attesa paziente, di un occhio allenato, di un gesto affinato da anni di esperienza. Ricordo mia nonna, con le mani...
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