Gli anni '90 rappresentano per il mondo venatorio italiano un decennio di spartiacque, un periodo di tensioni e cambiamenti radicali che hanno ridefinito in modo permanente la pratica, la percezione e la regolamentazione della caccia. Fu un'epoca di scontro frontale tra la cultura rurale tradizionale e una nuova e crescente sensibilità urbana e ambientalista. Analizzare quegli anni significa comprendere le radici della situazione attuale, attraverso tre assi fondamentali: la rivoluzione normativa, il crollo demografico dei praticanti e la polarizzazione dell'opinione pubblica.
Il pilastro del cambiamento fu la Legge 11 febbraio 1992, n. 157, "Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio". Questa legge non fu una semplice riforma, ma un completo ribaltamento di paradigma rispetto alla normativa precedente.
- Principio Fondamentale: Per la prima volta, la fauna selvatica venne definita "patrimonio indisponibile dello Stato" e tutelata nell'interesse della comunità nazionale ed internazionale. La caccia, da diritto quasi assoluto, diventava una concessione dello Stato, esercitabile solo a patto che non compromettesse la conservazione delle specie.
- Pianificazione e Gestione del Territorio: La legge pose fine al concetto di "caccia vagante" su tutto il territorio nazionale. Vennero istituiti gli Ambiti Territoriali di Caccia (ATC) per la selvaggina stanziale e i Comprensori Alpini (CA) per l'area delle Alpi. Ogni cacciatore dovette iscriversi a un ATC/CA di residenza (e, a pagamento, ad altri), legando l'attività venatoria a una gestione programmata e localizzata. La pianificazione faunistico-venatoria, affidata alle Regioni, divenne lo strumento per bilanciare prelievo e conservazione.
- Specie e Calendari Venatori: La 157/92 recepì le direttive europee (in particolare la Direttiva Uccelli 79/409/CEE) e stabilì un elenco tassativo di specie cacciabili. Qualsiasi altra specie era da considerarsi protetta. I periodi di caccia (calendari venatori) vennero ristretti e vincolati a criteri scientifici forniti dall'allora Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica (INFS), cercando di allinearli ai cicli riproduttivi e migratori.
- Il Cacciatore "Formato": Venne introdotto l'obbligo di superare un esame di abilitazione per ottenere la licenza. Le prove non si limitavano più al solo maneggio delle armi, ma includevano zoologia, legislazione venatoria, tutela delle colture agricole e norme di primo soccorso. L'obiettivo era trasformare la figura del cacciatore da semplice predatore a operatore con una minima competenza tecnica.
Parallelamente alla rivoluzione normativa, i dati statistici degli anni '90 mostrano un inesorabile declino numerico e un cambiamento demografico della popolazione venatoria.
- Crollo delle Licenze: All'inizio del decennio, nel 1990, le licenze di caccia in Italia erano circa 1.400.000. Alla fine del decennio, nel 2000, questo numero era precipitato a poco più di 800.000. Un calo di quasi il 45% in dieci anni, che proseguirà ininterrottamente nei decenni successivi.
- Le Cause del Declino:
- Fattore Demografico: Si assistette a un progressivo e marcato invecchiamento della popolazione venatoria, con uno scarsissimo ricambio generazionale. La trasmissione della pratica da padre in figlio, tipica del mondo rurale, si interruppe a causa dell'urbanizzazione e del cambiamento degli stili di vita.
- Fattore Socio-Culturale: La crescente influenza dei movimenti ambientalisti e animalisti cambiò la percezione sociale della caccia, soprattutto nei contesti urbani. Da attività legata alla tradizione e alla vita all'aria aperta, venne sempre più etichettata come pratica crudele e anacronistica.
- Fattore Economico-Burocratico: La Legge 157/92, pur con le sue buone intenzioni, aumentò la complessità burocratica e i costi. Tasse di concessione, quote di iscrizione agli ATC e l'aumento generale dei costi per armi e attrezzature resero la caccia un hobby economicamente più impegnativo.
Gli anni '90 furono il teatro di un aspro conflitto sociale, che si manifestò nei media e nelle urne.
- I Referendum Abrogativi: I referendum del 1990 e del 1997, promossi dal fronte anti-caccia (Verdi, LAV, LAC, WWF), pur fallendo per il mancato raggiungimento del quorum, furono un potentissimo indicatore politico. In entrambe le consultazioni, una parte dei votanti si espresse per l'abolizione o la forte limitazione della caccia. Questo segnalò al mondo politico e venatorio l'esistenza di una vasta e ostile fetta di opinione pubblica.
- Polarizzazione e Nuovi Ruoli: Il dibattito si polarizzò. Da un lato, il mondo venatorio (Federcaccia, Arci Caccia) cercò di reagire promuovendo l'immagine del cacciatore-gestore, una figura responsabile che collabora al monitoraggio faunistico e al controllo delle specie problematiche, come il cinghiale, la cui popolazione iniziò a crescere esponenzialmente proprio in quegli anni. Dall'altro, il fronte abolizionista insisteva sugli aspetti etici, sulla pericolosità sociale e sul danno alla biodiversità.
- Bracconaggio e Gestione: Nonostante la nuova legge, il bracconaggio rimase una piaga diffusa, che danneggiava sia la fauna sia l'immagine dei cacciatori regolari, i quali spesso si trovavano a dover pagare per le colpe di chi operava nell'illegalità. Nel contempo, la gestione delle specie opportuniste come il cinghiale, il capriolo e la volpe divenne un tema centrale, portando allo sviluppo della caccia di selezione, una forma di prelievo mirato e scientificamente pianificato che proprio negli anni '90 iniziò a diffondersi come strumento di gestione faunistica.
GATTINI MARCO - Migratoria.it