Immagina una mattina d'autunno del 1923, il sole ancora pigro che si faceva strada tra le nebbie leggere che avvolgevano la campagna toscana. Non la Toscana delle cartoline, ma quella selvaggia, aspra, dove i boschi si facevano fitti e le tracce degli animali erano l'unica mappa.
Il Duca Alberto Rospigliosi, impeccabile anche in abiti da caccia di tweed e stivali di cuoio lucidissimi, stava in piedi sulla soglia della sua tenuta, Villa Il Palagio. Accanto a lui, Fido e Diana, i suoi due setter inglesi, fremevano di eccitazione, le code che battevano un ritmo indiavolato sul terreno umido.
«Pronto, Guido?» domandò il Duca, rivolgendosi al suo fidato guardiacaccia.
Guido, un uomo robusto con baffi brizzolati e occhi attenti come quelli di un falco, annuì. «Pronto, Duca. I segugi sono già avanti con i battitori. Oggi è giorno di lepre, ne sono certo.»
La caccia, negli anni Venti, era ben più di un semplice passatempo per l'aristocrazia. Era un rito, una dimostrazione di virilità e abilità, un'occasione per sfoggiare abiti costosi e fucili di pregevole fattura. Ma per il Duca Alberto, era anche un momento di profonda connessione con la natura, un ritorno alle radici più primordiali.
Si incamminarono, il Duca con il suo inseparabile fucile a canne giustapposte, un Purdey & Sons che era stato del nonno, e Guido con un doppietta Beretta. Il profumo del muschio, delle foglie bagnate e della terra smossa riempiva l'aria. I richiami lontani dei battitori e gli abbai dei segugi creavano una sinfonia antica, un presagio di ciò che sarebbe venuto.
Risalirono una collina, i cani che si muovevano con agilità tra i cespugli, annusando ogni singola traccia. D'un tratto, Fido si bloccò, una statua vivente, il naso puntato verso un boschetto di querce. Diana gli si affiancò, altrettanto immobile.
«Ferma!» sussurrò Guido.
Il Duca si portò il fucile alla spalla, il cuore che batteva un po' più forte. Con un balzo, una lepre balzò fuori...
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