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L'alba del secondo giovedì di novembre sorgeva come una lama di ghiaccio sulle valli di Comacchio. Un freddo pungente si attaccava alle ossa, un vento sottile fischiava tra i canneti secchi, intonando la sua lugubre melodia invernale. A malapena si scorgeva la sagoma del campanile di San Guido, immerso in una nebbia che sapeva di sale e fango.

Giovanni, che tutti chiamavano Nane, era già in piedi da un'ora. Le sue mani nodose e screpolate, segnate da decenni di salsedine e fatica, armeggiavano con perizia intorno al barchino. Era un'imbarcazione lunga e piatta, scivolosa come un'anguilla, fatta per sfiorare l'acqua senza un lamento. A prua, la spingarda riposava, un mostro di ferro forgiato con la canna larga come un bicchiere, il cui solo sguardo incuteva timore. Non era un fucile, era un pezzo d'artiglieria, capace di spazzare via uno stormo intero con un unico, assordante boato.

Suo nipote, Pietro, si stropicciava gli occhi assonnati, il viso ancora segnato dal sonno. Aveva sedici anni, un'età in cui i sogni sono vasti quanto le lagune, ma la realtà della fame e del bisogno era ben più concreta. «Presto, giovanotto, il pesce non aspetta che tu ti decida ad aprire gli occhi» ringhiò Nane, senza cattiveria, ma con la ruvidezza tipica di chi conosce solo la schiettezza. Pietro annuì, afferrando i remi e sistemando le reti. Ogni movimento era misurato, quasi rituale. Il nonno gli aveva insegnato che nella valle, ogni gesto sbagliato poteva costare caro, non solo in termini di pesce perso, ma di vita stessa.

Si staccarono dalla riva mentre le prime timide luci dell'alba iniziavano a dipingere il cielo di sfumature grigio-violacee. Il barchino fendeva l'acqua come un fantasma, spinto dalle lente e cadenzate pagaiate di Nane. Pietro, seduto a prua, osservava il nonno. Ogni muscolo del suo corpo anziano sembrava conoscere la lingua della laguna, i suoi sussurri, le sue correnti...
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